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Pubblicato su LeSfide, 2019

Dalla ‘Cattiva Maestra’ all’Algocrazia?

Gli Stati Uniti e il mercato delle idee

Per discutere della nozione di pluralismo nelle democrazie liberali conviene partire dal primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, il quale afferma che “il Congresso non promulgherà leggi per il riconoscimento ufficiale di una religione, o che ne proibiscano la libera professione; o che limitino la libertà di parola, o di stampa; o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente in assemblea e di fare petizioni al governo per la riparazione dei torti”.

Un’interpretazione sistemica del primo emendamento la fornì, nel 1919, il giudice Oliver Wendell Holmes, nel famoso caso Abramsv.Unites States[i]. Il giudice Holmes, seguito dal collega Louis Brandeis, espresse una dissenting opinion, affermando che “il bene ultimo che si possa desiderare” è che le proprie ragioni si affermino grazie al libero scambio delle idee e che “il miglior test per la verità è la capacità di un dato pensiero di essere accettato nella concorrenza sul mercato” delle idee e che “la verità è il solo fondamento sul quale le proprie istanze possono esser legittimamente condotte”. Nacque così la dottrina del “marketplace of ideas”. Nel 1969, nel famoso caso Red LionBroadcasting Co. v. FCC, la Corte Suprema degli Stati Uniti sentenziò che “la finalità del Primo Emendamento è quella di preservare un libero mercato delle idee nel quale la verità possa alla fine prevalere”[ii].

Con la marketplace of ideas doctrineveniva formulata con chiarezza la relazione strumentale tra tutela della libertà d’espressione individuale e il conseguimento del bene pubblico rappresentato dal conseguimento della verità. Come ha sottolineato Emerson, con questa interpretazione del Primo Emendamento, “il dialogo socratico veniva esteso su scala universale”, in quanto “attraverso l’acquisizione di nuova conoscenza, la tolleranza di nuove idee, la verifica delle opinioni in concorrenza con le altre, la necessità di ripensare alle proprie assunzioni di partenza, una società avrà maggiore capacità di conseguire decisioni comuni in coerenza con i bisogni e le aspirazioni dei suoi membri”[iii]. Negli Stati Uniti, la relazione tra free speeche pluralismo si è scontrata, fin da subito, con la tensione tra il rispetto del Primo Emendamento (contro ogni regolazione limitativa della libertà d’espressione) e il mantenimento di un contesto concorrenziale tra libertà di espressione antagoniste nel rispettivo contenuto, per le trasmissioni radiofoniche. Il Federal Radio Act, approvato nel 1927, fu in particolare criticato dai difensori del primato del free speechper due ordini di ragioni: da un lato perché interveniva a regolare - attraverso apposite licenze con precisi obblighi di servizio - l’accesso alle frequenze radio utilizzate dalle broadcatsing station, pur motivandolo dalla necessità di prevenire interferenze al servizio; dall’altro, perché introduceva - durante le campagne elettorali a qualsiasi livello - la cosiddetta “equal time rule” che imponeva un diritto di replica, con analogo tempo di trasmissione, a candidati non invitati. La metafora del Giudice Holmes è la perfetta trasposizione[iv]del pensiero di John Stuart Mill nell’ordinamento giuridico americano. Nondimeno, non sono mancate le critiche a questo approccio e, via via, l’impostazione di Holmes è stata abbandonata o, meglio, riformulata nel corso degli anni. E’ rimasto, in una relazione con la nozione di pluralismo, il rapporto tra concorrenza e libertà d’espressione, mentre si è in parte dissolto il riferimento esplicito alla verità come fine pubblico. Una delle principali critiche – a Stuart Mill e a Holmes – risiedeva nella circostanza che se è vero che il mercato delle idee permette a fatti ‘veri’ di non esser censurati, nulla garantisce il “converse danger”[v]che venga impedito a tesi false di sopravvivere al confronto e di esser credute.

  1. La nascita del pluralismo radiotelevisivo

Sette anni dopo, con l’approvazione del Communications Acte la nascita della Federal Communications Commission(FCC), si legavano più esplicitamente le licenze radio alle finalità di interesse pubblico e veniva rafforzata l’“equal time rule”, dando vita alla cosiddetta Fairness Doctrine[vi].In particolare, in un report del 1949 della FCC, fu chiarita e articolata la natura dell’obbligo in capo all’emittente licenziataria di coprire temi controversi di cruciale importanza e di farlo in modo corretto (fair) ed equo (balanced) rispetto ai ‘contrasting viewpoints’. Non ci si limitava più, quindi, a garantire un tempo di replica a coloro che lo richiedevano per rispondere o rettificare a quanto detto nei loro confronti in precedenti trasmissioni, ma si imponeva all’emittente l’obbligo di determinare cosafosse rilevante discutere come tema controverso e chifosse opportuno invitare al fine di illustrare, nel modo più corretto e bilanciato, i diversi punti di vista sull’argomento. Con la Fairness Doctrinesi introduceva, dunque, una vera e propria regolazione del contenuto trasmesso, formalizzando l’obbligo di pluralismo “interno” nelle radio (un approccio che fu poi esteso ai broadcastersdella tv in chiaro) e spostando l’asse interpretativo del Primo Emendamento da una difesa della libertà d’espressione come libertà negativa da ogni interferenza dello Stato alla tutela della stessa libertà, intesa sia come diritto di accesso ai mezzi di informazione sia come diritto ad essere informati, in ragione della scarsità delle risorse frequenziali (‘scarcity rationale’).

L’argomento sostenuto dalla FCC era che la scarsità delle frequenze radio, limitando il numero di emittenti, finiva per restringere, di fatto, l’accesso alla libertà di espressione relegandola, in assenza di appositi obblighi, alla discrezionalità dell’emittente. Di qui, l’interesse pubblico al pluralismo come regola di accesso al mezzo di informazione radiofonica (poi esteso alle tv in chiaro): “è il diritto di chi guarda e di chi ascolta” scrisse la FCC nel suo Report del 1949, “ad essere di primaria importanza” ai fini del Primo Emendamento “non quello delle emittenti”. Come ha scritto Ira Mark Ellman, “forse è paradossale ma la fairness doctrineprotegge la libertà d’espressione regolandola”[vii]. La Fairness doctrinefu superata nella sua applicazione nel 1987, sotto la presidenza Reagan, sebbene poi formalmente abolita soltanto nel 2011. In un’intervista[viii]rilasciata a Frédéric Martel, Alfred Sikes (capo della Federal Communications Commission sotto la presidenza di H. W. Bush) spiega bene le ragioni – a suo dire bipartisan – che spinsero la FCC ad abbandonare la Fairness Doctrinenel 1987, senza peraltro tornare più indietro negli anni di Clinton e di Obama. Da un lato, la scarsità della frequenze e il numero limitato di emittenti: “il pluralismo e la fairness doctrineavevano senso quando esistevano solo tre network. Tuttavia dagli anni ottanta il numero di emittenti è costantemente aumentato […]. Abbiamo pensato che il pluralismo sarebbe stato garantito meglio con un maggior numero di canali invece di essere governato in termini politici”[ix]. Dall’altro, la ricerca del pluralismo, secondo Sikes, avrebbe finito per limitare la libertà editoriale e, per tale via, per impedire agli ascoltatori di misurarsi con posizioni forti e schierate, utili a decidere: “le emittenti non avevano la libertà editoriale, prendevano solo posizioni moderate e insulse. Dovevamo dare loro il diritto di scegliere e di schierarsi, di essere ‘opinionated’”[x]. Insomma, il superamento della Fairness Doctrinesegna il passaggio da una nozione di pluralismo internoa quella di pluralismo esterno: basta la concorrenza a garantire il pluralismo, l’utente si ‘protegge’ da sé, con la libertà di zapping.

  1. Concorrenza e Pluralismo

Il passaggio al pluralismo esternoaffidava alla concorrenza tra emittenti il ruolo di far emergere le informazioni rilevanti, per il cittadino-utente, nell’incrocio tra domanda e offerta di informazioni. Secondo il nuovo corso inaugurato dalla FCC alla fine degli anni ottanta, superato il tema della scarsità frequenziale di radio e tv (anche grazie allo sviluppo del satellite e del cavo), la concorrenza tra emittenti radio-tv andava assumendo dinamiche sempre più simili a quelle del libero mercato della carta stampata: nessuna barriera all’entrata, concorrenza e libertà editoriale dal lato dell’offerta e libertà di scelta dal lato della domanda. Fanno, in parte, eccezione a questa impostazione, le tradizioni delle normative europee sul pluralismo radiotelevisivo che mantenevano, soprattutto nel Regno Unito, in Francia, in Germania e in Italia, due leve: la tutela del pluralismo interno, affidato soprattutto ad un concessionario di servizio pubblico radiotelevisivo e quella del pluralismo esterno, previsto in ogni caso per le emittenti private, considerate, ad esempio in Italia, come soggetti eroganti un servizio di interesse pubblico e come tali comunque soggette ad una serie di regole (come quella nota come par condicio nell’accesso egualitario a mezzi di informazione comunque limitati, data la scarsità delle frequenze), sebbene meno stringenti di quelle previste per la programmazione di servizio pubblico.

Il punto centrale e implicito, che la concorrenza sul mercato dell’informazione aiutasse a migliorare il pluralismo, restava comunque un elemento centrale. E indiscusso. Il corollario era la fiducia nei confronti di un utente, armato di telecomando, interessato, razionalmente, a fare ‘zapping’, a confrontare, cioè, fonti diverse e a formarsi liberamente un’opinione autonoma.

Questo paradigma dell’utente razionale è stato tuttavia oggetto di crescenti critiche. Non solo da parte di Karl Popper e della sua celebre critica alla tv come ‘cattiva maestra’, data la sua capacità di manipolare opinioni e consenso. Ma anche da economisti dei media che hanno messo in discussione il principio che la concorrenza generi maggiore pluralismo e che il telecomando sia lo strumento moderno della libertà di scelta e del diritto di essere informati. Secondo il classico modello di Peter O. Steiner[xi], dal momento che l’audiencemisura il grado di attrattività dell’emittente per gli inserzionisti pubblicitari, la concorrenza per l’attenzione degli spettatori potrebbe spingere le diverse emittenti ad omogeneizzare la propria programmazione in modo da renderla popolare e puntare allo stesso tipo di pubblico, ovvero a specializzarsi nel tipo di programmazione più richiesta, in ogni fascia oraria. Competere per la loro attenzione dell’utente significherebbe offrire allo stesso gruppo di utenti, alla stessa ora, una medesima tipologia di programmazione. Con buona pace della diversità.

Come sottolineano Matthew Gentzkow e Jesse Shapiro[xii], se la domanda è distorta e ‘sceglie’ le informazioni che più si avvicinano alla propria pregressa visione del mondo, l’offerta (in)seguirà la domanda, selezionando, manipolando, persino inventando notizie ‘che hanno mercato’. Ma se la verità cui anela il pubblico fosse on demand, esattamente come un qualunque altro prodotto, e se l’offerta plasmasse le informazioni in funzione di ciò che la domanda richiede, allora verrebbe meno quella necessaria relazione tra libertà (d’espressione) e verità immaginata da John Stuart Mill e dai suoi epigoni. E, anzi, quanto più dura sarà la concorrenza, quanto più elevati saranno gli incentivi dei fornitori di informazione a ridurre il grado di informazione corretta, veritiera e plurale al fine di conquistare un lettore o uno spettatore in più. Insomma, anche in presenza di concorrenza, regole volte a sostenere il pluralismo possono essere necessarie laddove il consumatore di informazione sia orientato non già a cercare la verità attraverso il confronto informativo ma a confermare la propria verità bloccando il telecomando sul tasto che meglio rispecchia la sua pregressa visione del mondo. Cass Sunstein[xiii]le chiama “echo chambers”, i luoghi mediatici nei quali ascoltiamo l’eco delle nostre parole, a seguito di quella distorsione cognitiva che conferma i nostri pre-giudizi (confirmation bias).

  1. Algoritmo, polarizzazione e pluralismo

Comprendere che le distorsioni cognitive dal lato della domanda di informazioni possono rendere inefficace, ai fini del pluralismo, la concorrenza delle informazioni dal lato dell’offerta, significa mettere in discussione una delle promesse del web: l’avvento della piena libertà d’informazione e il superamento di ogni necessità di regolazione sul web. La diffusione delle piattaforme online e, in particolare dei social network (non a caso ricompresi nel concetto ampio di ), ha comportato il passaggio da un modello di integrazione verticale delle diverse fasi della catena del valore, tipica dell’editoria offline al cui interno l’editore esercitava un controllo (diretto o indiretto), ad una separazione dei diversi stadi del processo produttivo. Cambiano le informazioni e l’accesso alle informazioni, consentendo agli stessi utenti di partecipare alla produzione e ri-produzione di contenuti informativi e generando una contrazione dello spazio di esercizio del ruolo di intermediario svolto dall’editore tradizionale di giornali, radio e tv. La nostra dieta informativa quotidiana è ormai caratterizzata da uno crescente fenomeno di , cioè di uso congiunto di mezzi d’informazione tradizionali e di varie modalità offerte dal web, soprattutto attraverso motori di ricerca come Google e Yahoo e social network come Facebook e Twitter. In Italia, secondo l’ultimo rapporto sul consumo d’informazione di Agcom (2018), questo fenomeno interessa oltre i tre quarti della popolazione. La vecchia televisione resiste (circa l’8% della popolazione si informa solo attraverso la tv), mentre il 5% circa degli italiani non si informa affatto. I media tradizionali (), come la tv, rappresentano ancora il principale mezzo utilizzato per informarsi, sebbene l’attenzione si ripartisca in modo difforme tra le diverse generazioni. Oltre un quarto della popolazione italiana reputa internet lo strumento più importante per informarsi. La radiografia italiana non si discosta, in questo, da quella degli altri paesi avanzati. Il 55% della popolazione italiana consulta almeno una piattaforma online per informarsi, mentre la fruizione delle fonti editoriali online si ferma al 39%. In particolare, social network e motori di ricerca raggiungono le porzioni più ampie di popolazione, pari ciascuna al 37%. Dal lato dell’offerta di informazione, la maggiore disponibilità di fonti informative aumenta il cosiddetto pluralismo esterno e amplifica la libertà di informarsi, di confrontare fonti, di formarsi una opinione autonoma. La stessa offerta è arricchita dai contenuti auto-prodotti, dalle ricostruzioni dirette di testimoni, da ‘notizie’ e informazioni che non provengono soltanto da fonti giornalistiche ma da un universo poliedrico e variegato. La società digitale vive un paradosso: minimizza il costo di transazione nell’acquisizione di informazioni rispetto al passato ma, al tempo stesso, riduce anche l’attività di ricerca delle informazioni rilevanti. Un fenomeno rafforzato da quella che Derakhshan ha definitola morte degli . Insomma, nel web, chi cerca trova, ma chi trova, continua a cercare? Sembrerebbe proprio di no. Ciò per due ragioni principali: innanzitutto, abbiamo informazioni e ci richiederebbe molto tempo il leggerle, filtrarle, selezionarle. Si chiama , il sovraccarico informativo per il quale troppa scelta ci confonde e troppa ambiguità ci farebbe sorgere nuove domande, quando sono le risposte quelle che cerchiamo. In un recente studio, Petra Persson della Stanford University, mostra come la concorrenza nell’offerta d’informazione, in un contesto nel quale l’attenzione è limitata, riduce la conoscenza dei consumatori, causando ‘’. Lo aveva già detto, nel 1971, il Nobel Herbert Simon che “una ricchezza di informazioni crea una povertà di attenzione e la necessità di allocare efficientemente quell’informazione tra le sovrabbondanti fonti che possono consumarla”. E anche il filosofo israeliano Yuval Harari ha sottolineato come “in un mondo inondato da informazioni irrilevanti, la chiarezza è potere”. La nostra attenzione è scarsa, come il tempo che dedichiamo alla ricerca di informazioni. Finiamo così per scendere alla prima fermata () del nostro viaggio alla ricerca di informazioni, con il bagaglio informativo che abbiamo raccolto in pochi . Come tutti i bagagli fatti in gran fretta, esso contiene solo le cose che ci servono. E ci serve quello che conferma la nostra visione del mondo. Di fronte al sovraccarico informativo selezioniamo attraverso un : il da un lato e la profilazione algoritmica dei nostri dati dall’altro, che punta sui nostri interessi e sull’attenzione indotta dalle nostre emozioni.Se l’efficienza dell’algoritmo consiste nell’eliminare ogni rumore o varianza, per permettere un incontro perfetto tra domanda e offerta di informazioni, allora quell’efficienza è in se stessa antitetica al pluralismo, inteso come esposizione non selettiva e aperta a varietà di contenuti che non necessariamente confermano la nostra pregressa visione del mondo.

Non è un caso che questo tipo di meccanismo generi anche una crescita della polarizzazione che si trasforma, nel tempo, nelle dell'estremismo, alla frontiera mobile tra libertà di parola () e parole d’odio (). Una recente ricerca del Pew Institute e gli ultimi dati di Gallup mostrano come le distanze tra repubblicani e democratici, nell’ultimo anno di presidenza Trump, abbiano ormai raggiunto dimensioni storicamente inedite.

Insomma, l’oceano-web nato per soddisfare la nostra libertà di ricerca, per navigare liberamente sul mare delle idee, si rivela pieno di banchine, rotte prestabilite, approdi e porti che sono, allo stesso tempo, il risultato della nostra libertà e il confine delle nostre scelte.

Ci appare così lontanissima quell’epoca iniziale di fiducia ottimistica nella rete per la quale Lawrence Lessig poteva affermare che con internet gli Stati Uniti avrebbero esportato il primo emendamento - e la sacralità del - in tutto il mondo. Inteso, nella tradizione del giudice Holmes, non soltanto come tutela della libertà di espressione ma come strumento per far conseguire, a chi ascolta,nel , la verità.

Nel febbraio del 2017, su era apparso un articolo-manifesto, scritto da un gruppo di studiosi di varie discipline, tra i quali Bruno Frey, dal titolo esemplificativo: “?”. Tra gli altri rischi si sottolineava quello politico-elettorale: “Durante le elezioni sarà possibile influenzare gli elettori indecisi a supportare —una manipolazione difficile da controllare. Chiunque sarà in grado di controllare la tecnologia potrà vincere le elezioni— spingendo se stessi al potere. E il problema è esacerbato dal fatto, in molti paesi, un singolo motore di ricerca o social media detiene una posizione predominante di mercato, potendo influenzare in via determinante il pubblico e interferire da remoto con quei paesi”

Com’è possibile che si sia passati, in pochi anni, da una narrazione del web come inedito spazio di libertà per l’umanità, dalla primavera araba dei nella piazza di Tahir agli scorati appelli di eminenti studiosi? E ci può salvare d questi rischi un nuovo paradigma del pluralismo?

  1. Verso un pluralismo 2.0?

Il tema del nuovo pluralismo nell’era del web, non è quello antico e noto del , cioè quello di incrementare la concorrenza tra fonti alternative di informazione e contenuti, limitate dall’accesso a frequenze trasmissive scarse. Qui siamo, infatti, di fronte al caso opposto in cui “il fallimento” nel mercato delle idee avviene dal lato della domanda e non da quello dell’offerta. E’ il paradosso più clamoroso, tra quelli che abbiamo citato: il web nato per essere la nuova globale, rischia di peggiorare il grado di pluralismo, persino rispetto alla vecchia tv, fatta di palinsesti e di organizzazione gerarchica. Ma come migliorare il pluralismo nel web? Entriamo in un campo minato, nel quale, pur senza auspicare forme di regolazione dei contenuti (con i giusti e ripetuti allarmi contro ), non possiamo nemmeno accusare ogni voce critica di voler inibire il libero gioco del mercato, l’innovazione e persino la libertà d’espressione sul web. Sarebbe un modo sbagliato di affrontare il tema del pluralismo perché il mondo dell’economia e della società del dato è già fortemente soggetto a regole: solo che si tratta di regole disegnate e decise dalle piattaforme in quanto funzionali a mantenere e sviluppare nuovi modelli di business. La questione del non riguarda in sé il tema dell’accesso alla piattaforma (come nel caso della per radio e tv, regolato da autorità indipendenti), ma il superamento della selezione personalizzata di contenuti, filtrata dall’algoritmo, tra offerta e domanda. Per questo non basta dire, come Ankhi Das, Public Policy Director di Facebook per l’India e l’Asia centro-meridionale che “il miglior antidoto contro e è”. In un mondo digitale governato da pregiudizi di conferma, , polarizzazione, espressioni d’odio, e nel quale anche il consenso politico si misura a colpi di , il non alimenta il pluralismo, anzi. La difficile strada che andrebbe seguita dovrebbe esser quella della depolarizzazione, dello , di un vero confronto aperto alle ragioni dell’altro. Lo diceva già, quasi un secolo fa, Walter Lippman, che “quasi tutte le opinioni sulle questioni pubbliche hanno bisogno di un ridimensionamento” usando “parole come piuttosto, forse, se, oppure, ma, verso, non del tutto, quasi, temporaneamente, parzialmente”. Ma come si può eliminare l’esposizione selettiva, la polarizzazione, per produrre diversità ed esporci all’inatteso? La risposta non è semplice. E non c’è ancora. Ma da essa dipenderà il destino del pluralismo che verrà. E del suo impatto sulla democrazia.

[1]Docente di Politica economica presso Università Sapienza Roma e Commissario dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni

[i]Abrams v. United States,250 U.S. 616 (1919)

[ii]Red Lion Broadcasting Co. v. FCC395 U.S. 367 (1969)

[iii]Thomas I. Emerson (1963) “Toward a General Theory of the First Amendment”, 72 Yale L.J.877

[iv]Wonnell, C. T (1986) “Truth and the Marketplace of ideas”, 19 U.C. Davis L. Rev. 669

[v]S. Ingber (1984) “The Marketplace of Ideas: A Legitimizing Mith” Duke L.J.1, 7.

[vi] Kathleen Ann Ruane (2011) “Fairness Doctrine: History and Constitutional Issues” CRS Report for Congress

[vii]Ira Mark Ellman (1972) “And Now a Word against Our Sponsor: Extending the FCC's Fairness Doctrine to Advertising”, 60 Cal. L. Rev.1416

[viii]Frédéric Martel (2015) Smart. Inchiesta sulle Reti, Feltrinelli

[ix]Frédéric Martel (2015) cit.

[x]Frédéric Martel (2015) cit.

[xi]Steiner, P. O. (1952) “Program patterns and the workability of competition in radio broadcasting” Quarterly Journal of Economics,66(2), 194-223;

[xii]Matthew Gentzkow e Jesse M. Shapiro (2008) “Competition and Truth in the Market for News”, Journal of Economic Perspectives,Vol. 22, N. 2, pp. 133-154

[xiii]Cass Sunstein (2017) #Republic, Princeton

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